Attualità e Testimonianza con d.Giampietro 14/11/20

Dal Corriere della Sera del 10 novembre 2020


INTERVISTA al CARDINALE GIANFRANCO RAVASI


di Walter Veltroni


il testo è parte dell'intervista pubblicata...

La nostra generazione ha vissuto sulla base di due convinzioni: che domani sarebbe stato meglio di ieri, che fosse possibile cambiare il mondo. Oggi è la paura l’elemento dominante. Dove può finire un mondo senza speranza?

«Questa è veramente una delle domande radicali che bisogna porsi. Io come matrice sono legato a Pascal che scriveva la famosa frase “l’uomo supera infinitamente se stesso”. È avvenuto — per parlare in termini simbolici — con l’evoluzione, quando avevamo il primate che con la zampa aggrediva l’altro perché gli toglieva lo spazio. Ad un certo momento, mentre sta per aggredire un suo simile, guarda in alto, vede le stelle, si ferma a guardarle e diventa l’uomo. Tutto aiuta gli esseri umani a guardare oltre. Pensi la scienza stessa, faccio tre esempi: la genetica con l’intervento sulla flessibilità del Dna che certo aiuta, ed è una meraviglia dell’uomo per l’uomo, a combattere patologie terribili ma, al tempo stesso, può postulare la possibilità di creare un nuovo fenotipo antropologico. O pensi alla potenza delle neuroscienze: ora se noi apriamo la nostra scatola cranica, la mettiamo in una notte in parallelo alla nostra galassia, scopriamo che in 120, 180 grammi di materia grigia, abbiamo dagli 80 ai 100 miliardi di neuroni e che, dall’altra parte, sono 100 miliardi le stelle della Via Lattea, della nostra galassia. Se si agisce sul rapporto tra cervello e mente si finisce col ridefinire il modello di essere umano. Terzo: l’intelligenza artificiale. Diceva John Searle che i computer conoscono la sintassi ma non la semantica, cioè sanno fare, ma non sanno quello che fanno. Ma ora lo sanno, o lo stanno imparando. Lungo quali direttrici si va affermando l’autocoscienza delle macchine? Esiste il rischio del quale parlava Fromm: “Il pericolo del passato era che gli uomini diventassero schiavi. Il pericolo del futuro è che diventino robot”. Non sono questi grandi temi roventi per il pensiero religioso, filosofico, politico? E per alimentare nuove razionali speranze? Il poeta Charles Péguy dice: “Sperare a testa bassa ogni giorno è la cosa più difficile, disperare è la tentazione”. La speranza è la seconda delle virtù cardinali: fede, speranza, carità. Péguy la rappresenta così: è la sorella più piccola, le altre sono più alte, forse più importanti. Cosa succede? Succede come quando due genitori stanno camminando per strada, incontrano uno e si fermano a parlare, oppure si fermano davanti ad una vetrina. Il bambino piccolo che cosa fa? Tira, li fa muovere. Se non ci fosse la speranza fede e carità non andrebbero avanti. Non avremmo il futuro».

Nel nostro tempo tutto è frammento ed è istante, il presentismo in cui tutto si consuma. Come si può ricostruire il senso della storia, della profondità, della memoria per progettare il futuro, l’unico luogo in cui siamo diretti?

«Noi adesso siamo davanti ad una civiltà tendenzialmente smemorata: non ha speranza nel futuro e non guarda al passato. Il che vuol dire che ha un presente frammentato, vuoto. “Ricordare” è “riportare al cuore”, quindi è un’esperienza. Giorgio Pasquali nel suo Filologia e storia scriveva che chi non ricorda non vive. L’Alzheimer, malattia del nostro tempo, non ti cancella solo la memoria, ti cancella la vita. Culturalmente questo appiattimento unidimensionale del tempo è cominciato con la messa in discussione della famosa storia delle radici cristiane in Europa. Secondo me la Chiesa allora si è mossa male perché ha continuato ad affermarne questo valore esclusivamente per la questione religiosa, mentre era un problema squisitamente culturale, socio-culturale. Se si rimuove quel passato glorioso alla fine ci disperdiamo nel particolare, nella banalità, nell’ovvietà, nella superficialità, nell’indifferenza, nella stupidità. È vero il motto della tradizione rabbinica che afferma “il sapiente sa quel che dice, lo stupido dice quel che sa”. La memoria non è l’adorazione delle ceneri, è tenere viva la fiamma. Torna decisiva la scuola come luogo di riconnessione. Quale è la radice etimologica di educazione? Educere, tirar fuori, estrarre e poi riconnettere. Secondo la cultura indiana l’esistenza di una persona è fatta di quattro tappe. C’è il tempo in cui si impara, il tempo della fatica, del giudizio. Il secondo momento è l’insegnare, essere genitore, maestro. La parola sapienza deriva dal latino sàpere che vuol dire “avere sapore”, gusto, potremmo dire il senso del conoscere. La terza è la tappa del bosco, cioè ritirarsi all’ombra, essere capaci di trovare anche nella solitudine, la capacità di riflettere, ritrovare la parola che ha senso, ritrovare un po’ più se stessi. Chi ha il coraggio di dire oggi che a un certo punto della vita bisogna fare l’esame di coscienza? Non lo dicono più neppure i preti... II quarto è il momento in cui si diventa mendicanti, quando si ha bisogno degli altri. Nella vecchiaia tu ritrovi la relazione che prima hai vissuto da signore, qui la vivi invece da persona umile, da povero. Questi quattro elementi secondo me costituiscono un po’ la maturità nel suo insieme e non sono necessariamente successivi l’uno all’altro. Credo che per creare questa unità di conoscenza e non la frammentarietà del “presentismo” si debba vivere un’esperienza umana completa»...(continua).

RICORDARE:
L'etimo di "ricordare" è "riportare al cuore", sottolinea il cardinal Ravasi, spiegando che invece in questo momento noi ci troviamo davanti "ad una civiltà tendezialmente smemorata, che non ha speranza nel futuro e non guarda al passato. Il che vuol dire che ha un presente frammentato, vuoto". Un appiattimento che secondo lui è iniziato con la messa in discussione delle radici cristiane in Europa, tema "più socio-culturale che religioso"

Una considerazione:

E per noi cosa significa ricordare?
Quali esperienze sono essenziali per alimentare la speranza?

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