Attualità e Testimonianza con d.Giampietro 25/04/21

 

Dal Corriere della Sera del 25 aprile 2021

La Festa della Liberazione e quel «grazie» non detto 


di Carlo Verdelli

La memoria ha le gambe corte. Ormai funziona soltanto nel breve, si smarrisce appena le cose stanno un po’ più in là dell’orizzonte del giorno. Questa mutilazione quasi fisica della memoria non è avvenuta di notte, con un taglio improvviso. È il risultato di tanti fattori convergenti: la rottura delle cinghie di trasmissione dei saperi tra le generazioni, l’incapacità della scuola di compensare questa interruzione, un crescente fastidio per tutto ciò che non sia qui e ora, l’irresponsabile disinteresse di chi lavora per farci vivere in un indistinto presente. Il grande albero della Storia è stato segato pazientemente alla base finché è caduto, lasciando tronco e radici inutilmente piantati sul terreno, e il resto, fusto e fronde, abbandonato ai venti dell’indifferenza o della manipolazione. Abbiamo perso l’allenamento a ricordare, ed è un indebolimento non solo della conoscenza ma anche della coscienza.


Annegano altri 130 migranti, o 150, o chissà, al largo della costa libica, e presto il mare li nasconderà persino al ricordo, come già successo per Alan Kurdi, il bambino siriano di tre anni spiaggiato senza vita il 2 settembre 2015: sembrava, quel piccolo corpo con la maglietta rossa e i pantaloncini blu, un punto di non ritorno, l’inizio di una svolta nelle politiche europee, l’immagine indimenticabile di una tragedia non più sopportabile. Sembrava. Dimenticato. Il passato prossimo, anche il più recente, non ce la fa più a restare attuale. Diventa immediatamente remoto, trapassato, scompare. Le Torri Gemelle? Falcone e Borsellino? Il caso Moro? Più si arretra nel tempo, più i contorni si confondono, una nebbia collettiva li dissolve, ogni vicenda scompare in un buco, pronta a essere seppellita oppure riscritta a piacere. Il 25 aprile, per esempio, festa nazionale della liberazione dal nazifascismo. Sono passati 76 anni. Una distanza diventata inconcepibile, che legittima qualsiasi tentativo di oblio, che consente persino di svuotare il senso di questo giorno sacro alla nazione, contrabbandandolo per quello che non è.

Il direttore generale dell’Istruzione delle Marche, quindi un’importante autorità educativa, ha appena scritto una lettera a docenti e studenti dove sostiene una tesi politicamente ardita e palesemente falsa. Dall’alto del suo magistero, dice che il 25 aprile sarebbe sì una festa, ma per la fine della Seconda guerra mondiale (falso), che infiniti lutti addusse all’Italia, oltre 300 mila caduti militari e 150 mila vittime civili (non cita gli oltre 44 mila partigiani, o forse li infila in una delle due categorie sopra citate). Ammette che «quell’immane conflitto ha visto un Paese scisso e martoriato». Poi scivola in un’interpretazione che, dietro un velo di auspicabile concordia nazionale, nasconde uno sfregio alla decenza storica: «Due Italie si sono fronteggiate per le rispettive ragioni e i rispettivi sogni, e sarebbe ora che si superassero le antitesi disperate, le demonizzazioni reciproche, proprio nel nome di quella Costituzione che i nostri padri e i nostri nonni ci hanno dato».

Mai nominare la Costituzione invano. L’Articolo 1 dice che la nostra è una Repubblica democratica, ovvero il contrario del fascismo e del nazismo che sono state dittature, qualsiasi sogno sognassero i loro aderenti. Quanto al superamento di «antitesi disperate», nella Dodicesima disposizione finale c’è il divieto alla riorganizzazione del partito fascista «sotto qualsiasi forma». Non bastasse, tutti i principi e i valori della Carta consegnataci in eredità dai nostri Padri sono incompatibili con i principi e i valori di quella parte d’Italia sconfitta (dagli Alleati certamente, ma anche dalla Resistenza): autoritarismo, limitazione delle libertà e dei diritti dei cittadini, razzismo.

Fare una festa senza neanche sapere chi e che cosa si festeggia è desolante. Per rispetto di verità, i festeggiati sarebbero i partigiani, uomini e donne e ragazzini e ragazzine (c’è un portale appena inaugurato dall’Anpi, www.noipartigiani.it, che è uno straordinario mosaico di volti, voci e storie dei sopravvissuti di quella stagione) che hanno rischiato e in molti perso la vita per ridarci una libertà che non va mai data per scontata, che anzi va difesa e manutenuta. La stessa cosa che si dovrebbe ricominciare a fare con la nostra memoria, specie quella collettiva, che è il sistema cardiocircolatorio di una comunità: porta l’ossigeno dell’esperienza nelle cellule centrali e periferiche, consente lo sviluppo degli anticorpi ai molti virus che minacciano una democrazia.

Il dovere di ricordare sarebbe utilissimo anche adesso che l’Italia sta per riaprire dopo la lunga stagione delle chiusure. Le immagini di che cosa è stata, e di che cosa rischia di tornare ad essere, la devastazione del Covid, andrebbero conservate dentro ognuno di noi: se rimosse o adulterate o colpevolmente negate, renderanno meno calcolabile il rischio che il governo s’è preso di dare fiducia a un Paese che prova a ripartire nonostante il pericolo sia tutt’altro che scomparso.

Nel Piano nazionale di ripresa e resilienza che il premier Draghi sta perfezionando prima di inviarlo all’Europa, la voce «memoria» non è comprensibilmente contemplata. Ma dovrebbe permeare tutte le principali voci di investimento: dalla transizione ecologica al rilancio dell’Istruzione. Da quanti anni sentiamo appelli e statistiche allarmanti sullo stato di salute della Terra? Da quanti anni ci ripetiamo che la nostra scuola non è più attrezzata per educare le nuove generazioni per il nuovo mondo che le aspetta? Sentiamo e poi dimentichiamo, a cominciare da chi ha responsabilità di gestione della cosa pubblica. L’Italia liberata che ci è stata affidata il 25 aprile del 1945 aveva, quella sì, un sogno: consegnare a chi l’avrebbe abitata un Paese capace di fare tesoro dell’incubo scampato. Spiegava a degli studenti milanesi Pietro Calamandrei, una delle anime dell’Assemblea Costituente: «La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare». I partigiani ce l’hanno ridata, quell’aria. Almeno ricordarsi di dire loro grazie.

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