Attualità e Testimonianza con d.Giampietro 04/08/21

 

Dal Corriere della Sera del 2 agosto 2021

La fiducia in sè magia nazionale

di Marco Imarisio

Abbiamo vissuto qualcosa che racconteremo a figli e nipoti. E per una volta non è retorica, ma semplice realtà. Perché l'Italia ha vinto due ori mai vinti.

Noi siamo sempre stati quelli che costruivano il loro medagliere con gli sport minori, ammesso e non concesso che ne esista qualcuno con meno dignità degli altri. Eravamo quelli che le medaglie si pesano e non si contano, come chiosava qualche osservatore straniero che alla fine di ogni edizione dei Giochi fingevamo di ignorare per carità di patria, sapendo in cuor nostro che aveva qualche ragione.

Le porte dell'atletica per noi erano sempre chiuse, e le poche volte che in tempi recenti si è aperto qualche spiraglio è sempre stato grazie alla strada che con marcia e maratona aveva coperto i problemi di un movimento in sofferenza. E più andava male, come a Rio de Janeiro nel 2016, senza neanche la consolazione di qualche piazzamento sul podio, più cresceva il rimpianto per i campioni della nostra in- fanzia, per Pietro Mennea e Sara Simeoni, che sembravano appartenere a un'epoca mitologica, destinata a rivivere soltanto in speciali televisivi sempre più nostalgici di quei tempi cosi lontani. Solo con loro, alle Olimpiadi di Mosca del 1980, eravamo riusciti a ottenere due ori senza l'aiuto di fondo, mezzofondo o della corsa lunga. Nelle trentuno edizioni precedenti dei Giochi moderni, non c'era mai stato un italiano nella finale dei cento metri, figurarsi vincerla.

Per ritrovare un altro trionfo in una gara di velocità, bisogna tornare ancora più indietro, al Livio Berruti di Roma 1960. E prima ancora a Ondina Valla, oro negli 8o metri ad ostacoli a Berlino 1936. Nient'altro,dal 1896 a oggi. Non era una cosa da poco, questa perenne attesa di momenti gloriosi che non arrivavano mai. Sarà anche frase fatta, ma l'atletica è davvero la regina dello sport perché si occupa delle attività motorie di base dell'uomo. La corsa, i salti e i lanci sono l'inizio e la fine di tutto. L'atletica è il luogo che contiene ogni altra disciplina. Ci vorranno giorni per metabolizzare l'enormità di quel che è accaduto. Neppure nella sceneggiatura più ardita sarebbe stato possibile immaginare una sequenza come quella che abbiamo visto allo Stadio olimpico di Tokyo.

GianmarcoTamberi detto Gimbo che dopo aver capito di essere medaglia d'oro nel salto in alto si rotola incredulo a terra. E si rialza solo per correre incontro a Marcell Jacobs alla fine della sua formidabile corsa. Il loro abbraccio ne ha fatto subito venire in mente un altro, ancora fresco nella memoria. Quello tra Gianluca Vialli e Roberto Mancini sul prato di Wembley, dopo aver ottenuto un trionfo tutto sommato anch'esso insperato che mancava dal 1968. Se c'è un filo immateriale che tiene insieme queste due immagini, è fatto di speranza, di resistenza al dolore e al male. Lo sport non è nient'altro che questo, é il nostro reparto giocattoli della vita, alla quale finisce sempre per assomigliare. Ne avevamo bisogno, di questa estate italiana. Forse, ce lo meritavamo anche. Ci meritiamo i complimenti dei giapponesi all'uscita dello stadio, gli sguardi per una volta invidiosi degli inviati americani abituati da sempre alle medaglie «pesanti», l'esultanza generale sui social che mette insieme tutto, anche il primo posto dei Maneskin al Festival europeo della canzone, con il New York Times che si chiedeva stupito chi fossero questi ragazzi che facevano un'esibizione cosi poco associata all'immagine classica del nostro Paese. Quegli abbracci così diversi e simili tra loro, e in ambito diverso lo stupore dei quattro musicisti romani all'annuncio del vincitore, sono immagini che resteranno e che ricorderemo. Ci siamo flagellati per anni con altre istantanee, quante volte abbiamo letto e scritto che la Costa Concordia spiaggiata all'Isola del Giglio era la metafora di un Paese che stava affondando nella peggior crisi economica della sua storia. E quanto ci è venuto da piangere, appena quattordici mesi fa, mentre eravamo chiusi ognuno a casa sua, immersi nelle nostre solitudini, a vedere i carri militari che portavano via le bare dal cimitero di Bergamo. Ci ripetevamo in quei mesi tremendi che sarebbe andato tutto bene, senza crederci troppo. Adesso va un po' meglio. Anche grazie a questa incredibile estate sportiva. L'idea che una vittoria nel calcio o nei centometri dove non eravamo mai neppure andati in finale possa cambiare il corso delle nostre vite e della nostra storia, é solo una illusione.

Non è vero che fu il trionfo al Bernabeu del 1982 a chiudere gli anni di piombo, non saranno Tamberi e Jacobs a renderci meglio di quel che siamo. Ma non dobbiamo neppure vergognarci di gioire, e di pensare che tutto sommato da ierí potremmo anche cominciare a vivere in un Paese più ottimista, che deve avere più fiducia in sé stesso. I nostri due nuovi campioni ci hanno appena insegnato, non con le parole ma con i fatti, che bisogna crederci sempre, senza abbattersi mai per gli ostacoli che si incontrano lungo il cammino.

Jacobs, italiano di El Paso cresciuto a Desenzano, madre italiana e padre afroamericano, ne ha affrontati molti, compresi quelli più invisibili e striscianti. La sua vittoria è uno schiaffo in faccia a qualunque pregiudizio. Con una spedizione italiana che conta un numero record di 55 atleti nati all'estero, non è un caso che il presidente del Coni Giovanni Malagò abbia definito «aberrante e folle» il fatto che non esista ancora lo ius soli sportivo.

Cinque anni fa, Tamberi non sapeva neppure se avrebbe mai potuto correre ancora, figurarsi saltare, con i legamenti della caviglia sinistra spezzati prima dei Giochi di Rio sui quali aveva puntato ogni ipotesi di futuro. L'uomo più veloce delle Olimpiadi e quello che salta più in alto di tutti sono entrambi la prova che l'impossibile non esiste, anche per l'Ittalia. Chissà se potremo mai vivere un'altra yolta un momento così perfetto. Ma da ieri sappiamo di avere qualcosa di bello e di nuovo da ricordare, non solo le storie delle care vecchie leggende. E sappiamo che tra un secolo si parlerà ancora di questa notte italiana a Tokyo.


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