La fiducia non può stancarsi
Attualità e Testimonianza con d.Giampietro 24/04/22
Dal Corriere della Sera del 22 aprile 2022
La fiducia non può stancarsi
di Beppe Servegnini
La guerra in Ucraina sta per compiere due mesi e — al di là di ogni giudizio morale, politico, militare, strategico, storico — si è rivelata stupefacente. Pochissimi italiani avevano sentito, in vita loro, la guerra così vicina, avevano provato il timore che il conflitto si allargasse e si avvicinasse ancora. Chi possiede questi ricordi è prossimo ai novant’anni, o li ha superati. Tutti gli altri la guerra l’hanno letta nei libri e sui giornali, l’hanno vista al cinema e in televisione.
L’invasione dell’Ucraina ha qualcosa di vecchio e terribile: vecchie armi, vecchi propositi, vecchie rivendicazioni, vecchio totalitarismo, vecchie censure. Solo le morti e le sofferenze sono nuove, e ne abbiamo viste tante, troppe. Questa guerra — lo hanno notato tutti — è a portata di satellite, di drone e di smartphone. La resistenza degli ucraini merita di essere ricordata nel nostro 25 aprile: anche stavolta c’è un popolo che non si arrende all’invasore. Tutto il resto si può discutere. Ma questo, con il suo carico di dolore, è il terribile punto di partenza.
Cosa può accadere adesso? Agli ucraini, ancora non sappiamo. Cosa può succedere a noi, invece, iniziamo a capirlo: rischiamo di stancarci. Stancarci dell’orrore, stancarci dell’informazione, stancarci della compassione, stancarci di sperare nella pace e nel sollievo che porterebbe. Stancarci di immaginare una soluzione che appare lontana.
Non c’è nulla di cui vergognarsi. La stanchezza non è una colpa. Le nostre menti e i nostri cuori si difendono come possono, e non sempre ci avvertono delle loro intenzioni.
Non parliamo qui degli esibizionisti, degli acrimoniosi, dei frustrati e dei masochisti che sfruttano l’occasione per prendersela con la Nato, con l’America, con la democrazia. La stanchezza che rischiamo, e già s’intuisce, è la stanchezza degli onesti: di quelli che sanno chi ha iniziato tutto e potrebbe interrompere tutto. Su Twitter gira una frase realistica e feroce, nella sua semplicità: se i russi smettono di combattere, non c’è più la guerra; se gli ucraini smettono di combattere, non c’è più l’Ucraina.
Quali sono i sintomi di questo spossamento collettivo? Per cominciare, la minore predisposizione a informarsi, che si era già notata nel secondo anno della pandemia. Dopo aver letto, ascoltato e visto ogni giorno, tutto il giorno, per sessanta giorni, morti e tragedie, la tentazione è rimuovere il conflitto. Operazione rischiosa, perché gli alfieri del tiranno — a casa sua, a casa nostra — puntano su questo progressivo disinteresse. La tranquillità conquistata così la pagheremmo carissima.
C’è poi la stanchezza della compassione, che si accompagna al rischio dell’assuefazione. Gli esseri umani si abituano a tutto: anche al lutto e all’orrore. Il nostro cervello è dotato di straordinari meccanismi difensivi, lo intuiamo quando dobbiamo superare un dolore personale. Sta accadendo durante la guerra in Ucraina. Certi filmati, all’inizio di febbraio, faticavamo a guardarli. Oggi passiamo da uno all’altro, discutiamo i dettagli, ragionando sull’autenticità, in un’improvvisata esegesi bellica di cui ci credevamo incapaci. La partecipazione alla tragedia delle vittime è rimasta, ma sta perdendo forza. La risvegliano solo nuovi, immensi orrori, come quelli che stanno uscendo da Mariupol.
L’ultima forma di stanchezza è la stanchezza della speranza. L’ossessiva determinazione di Vladimir Putin, nonostante gli insuccessi militari, rende difficile immaginare una soluzione a breve termine. Il negoziato è ridotto a un rituale. L’Onu è assente. Chi potrebbe sbloccare la situazione — la Cina, un mediatore impossibile da ignorare — per ora evita d’essere coinvolta, e si limita a criptiche dichiarazioni di principio. Noi europei — vicini ansiosi — rischiamo di rassegnarci a una guerra lunga, tragica, penosa, destinata a cambiare la geografia d’Europa e la nostra vita quotidiana. Abbiamo appena spento il riscaldamento, ma all’inizio della nuova stagione termica — il 15 ottobre — dovremo prendere decisioni non facili. E nei supermercati, sotto le lattine dell’olio di semi di girasole, sono già comparsi i cartelli: «Solo uno per famiglia». Dall’Ucraina, abbiamo scoperto, arriva anche quello.
Eppure, non abbiamo scelta: dobbiamo resistere. I nemici della democrazia contano sulla nostra stanchezza, e non possiamo dargliela vinta.
scrivi a dongiampietro@gmail.com
L’invasione dell’Ucraina ha qualcosa di vecchio e terribile: vecchie armi, vecchi propositi, vecchie rivendicazioni, vecchio totalitarismo, vecchie censure. Solo le morti e le sofferenze sono nuove, e ne abbiamo viste tante, troppe. Questa guerra — lo hanno notato tutti — è a portata di satellite, di drone e di smartphone. La resistenza degli ucraini merita di essere ricordata nel nostro 25 aprile: anche stavolta c’è un popolo che non si arrende all’invasore. Tutto il resto si può discutere. Ma questo, con il suo carico di dolore, è il terribile punto di partenza.
Cosa può accadere adesso? Agli ucraini, ancora non sappiamo. Cosa può succedere a noi, invece, iniziamo a capirlo: rischiamo di stancarci. Stancarci dell’orrore, stancarci dell’informazione, stancarci della compassione, stancarci di sperare nella pace e nel sollievo che porterebbe. Stancarci di immaginare una soluzione che appare lontana.
Non c’è nulla di cui vergognarsi. La stanchezza non è una colpa. Le nostre menti e i nostri cuori si difendono come possono, e non sempre ci avvertono delle loro intenzioni.
Non parliamo qui degli esibizionisti, degli acrimoniosi, dei frustrati e dei masochisti che sfruttano l’occasione per prendersela con la Nato, con l’America, con la democrazia. La stanchezza che rischiamo, e già s’intuisce, è la stanchezza degli onesti: di quelli che sanno chi ha iniziato tutto e potrebbe interrompere tutto. Su Twitter gira una frase realistica e feroce, nella sua semplicità: se i russi smettono di combattere, non c’è più la guerra; se gli ucraini smettono di combattere, non c’è più l’Ucraina.
Quali sono i sintomi di questo spossamento collettivo? Per cominciare, la minore predisposizione a informarsi, che si era già notata nel secondo anno della pandemia. Dopo aver letto, ascoltato e visto ogni giorno, tutto il giorno, per sessanta giorni, morti e tragedie, la tentazione è rimuovere il conflitto. Operazione rischiosa, perché gli alfieri del tiranno — a casa sua, a casa nostra — puntano su questo progressivo disinteresse. La tranquillità conquistata così la pagheremmo carissima.
C’è poi la stanchezza della compassione, che si accompagna al rischio dell’assuefazione. Gli esseri umani si abituano a tutto: anche al lutto e all’orrore. Il nostro cervello è dotato di straordinari meccanismi difensivi, lo intuiamo quando dobbiamo superare un dolore personale. Sta accadendo durante la guerra in Ucraina. Certi filmati, all’inizio di febbraio, faticavamo a guardarli. Oggi passiamo da uno all’altro, discutiamo i dettagli, ragionando sull’autenticità, in un’improvvisata esegesi bellica di cui ci credevamo incapaci. La partecipazione alla tragedia delle vittime è rimasta, ma sta perdendo forza. La risvegliano solo nuovi, immensi orrori, come quelli che stanno uscendo da Mariupol.
L’ultima forma di stanchezza è la stanchezza della speranza. L’ossessiva determinazione di Vladimir Putin, nonostante gli insuccessi militari, rende difficile immaginare una soluzione a breve termine. Il negoziato è ridotto a un rituale. L’Onu è assente. Chi potrebbe sbloccare la situazione — la Cina, un mediatore impossibile da ignorare — per ora evita d’essere coinvolta, e si limita a criptiche dichiarazioni di principio. Noi europei — vicini ansiosi — rischiamo di rassegnarci a una guerra lunga, tragica, penosa, destinata a cambiare la geografia d’Europa e la nostra vita quotidiana. Abbiamo appena spento il riscaldamento, ma all’inizio della nuova stagione termica — il 15 ottobre — dovremo prendere decisioni non facili. E nei supermercati, sotto le lattine dell’olio di semi di girasole, sono già comparsi i cartelli: «Solo uno per famiglia». Dall’Ucraina, abbiamo scoperto, arriva anche quello.
Eppure, non abbiamo scelta: dobbiamo resistere. I nemici della democrazia contano sulla nostra stanchezza, e non possiamo dargliela vinta.
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